“Cerco un dialogo tra passato e presente
e la possibilità  di cercare uno spazio di quiete
nel nostro mondo frenetico”.
[Thomas Struth]

|

Every piece taken away leaves an empty space, we say.  An empty space or two or five or ten...., they grow rhythmically, unrelenting, one day after another, each one adding up to absolutely  nothing.
This extract taken from the book “The Resignation” by Ermanno Rea, seems to predict the not too distant future of the steelworks in west Genoa which make us reflect on the space, abandoned or not, that they occupy in the fabric of local society.

These photos, taken in Cornigliano, in the province of Genoa, between November 2006 and January 2007 are presented together with the reading of an anthology of poems called “Microcosmos”, read on this occasion by Edoardo Sanguineti.
The artist, inspired by the verses of the poet from Genoa, paints a post-industrial landscape used in a state of sub-conscience created by listening to electronic sounds, barely touching a visual neo-linguistic avant-garde.

The fifteen images, born out of an archive of work commissioned by the department of Industrial Archaeology a the University of Genoa, tell a story of Liguria.  These documentations are invaluable above all for future generations as an antidote to the loss of history in our memories as we are confronted with the unstoppable post-industrial transformation of Liguria, a unique testimony towards elements that will eventually disappear, sacrificed at the altar of an often blind rush for modernity.

|

Settecento orecchi di piombo, accostati l’uno accanto all’altro, formavano un gigantesco portone grigio che serviva a separare Villa Cattolica di Bagheria dall’antica fabbrica di laterizi ormai in disuso. Nel 1998 Claudio Parmiggiani, per la mostra “L’Ombra degli dei”, volle ascoltare le voci che risuonavano tra le ferraglie dismesse della fabbrica, con il suo portone di orecchi pareva ascoltare il tempo trascorso oltre quel muro alto e censorio, per riportare in vita un pezzo di storia e trasformare la ruggine in sangue pulsante. La villa settecentesca convive fianco a fianco con quello che rimane di un luogo produttivo fino agli anni ‘60, oggi immagine caricata della peggiore valenza estetica nel confronto con la sede del museo Guttuso. La potente evocatività di quella straordinaria scultura di piombo la ritrovo oggi nelle fotografie di Lorenzo Giordano, nella sensibilità descrittiva con cui percorre il sito delle ex-acciaierie di Cornigliano (Ge) svelando immagine dopo immagine la forza di un luogo, la potenza delle storie che dentro di esso si sono intrecciate. “Post”, una serie di quindici fotografie in bianco e nero, realizzate tra il 2006 e il 2007 su incarico del dipartimento di Archeologia Industriale dell’Università di Genova, trova ispirazione nelle poesie di Edoardo Sanguineti, tratte dall’antologia “Mikrokosmos”. Se il verso dissolutore di Sanguineti testimonia l’impossibilita di una comunicazione nell’epoca contemporanea, la fotografia di Giordano sembra voler appuntare le parole nelle forme bloccate dai suoi scatti. Il testo è incalzante, rapido e apre a infinite sollecitazioni, la fotografia, al contrario, accoglie la suggestione del viatico letterario e introduce una narrazione visiva che si concentra in ogni dettaglio, negli scorci architettonici, negli orizzonti bloccati dalle ciminiere, nello skyline di strutture metalliche. La narrazione nella fotografia contemporanea attinge alla dimensione favolistica, a leggende o a mitologie moderne che hanno già trovato insediamento nella memoria collettiva. La vicenda delle acciaierie di Cornigliano appartiene alla storia economica e sociale dell’Italia: dallo sviluppo industriale nella regione Liguria e più complessivamente alla problematica inerente lo smantellamento delle fabbriche in Italia, alla perdita del lavoro e alla riqualificazione dei territori occupati dai fantasmi di un passato industriale. Le fotografie di “Post” sono al tempo stesso immagini della memoria e reportage artistico, quando Il fotografo conquista la dimensione pittorica della rappresentazione, consentendo all’osservatore di essere accolto in uno spazio allusivo, simbolico, diverso dalla realtà effettuale. Nell’uso del bianco e nero, il nero prevale sui mezzi toni dipingendo tutto di un’atmosfera ancora più straniante. La messa a fuoco sul dettaglio carica l’oggetto di una forza irreale e richiede uno sguardo prolungato in un tempo sospeso, in attesa di penetrare nei gangli della storia. “Per comprendere un edificio, essere onesti, bisogna porsi alla giusta altezza. Dal basso un altoforno sembra una piovra metallica. Dalla giusta altezza è più calmo, si vede dove inizia e dove finisce; si può fare ordine” sono le parole di Hilla Becher alla consegna del Leone d’oro di Venezia nel 1990. La lezione visiva dei Becher è chiaramente presente nel lavoro di Lorenzo, ma alla chiarezza della luce diffusa, alla centralità del soggetto architetturale e alla serialità tipologica dei siti, in “Post” si sostituisce la ricerca di una bellezza intrinseca alla forma, che si manifesta nel contrasto tra ciò che risulta estremamente visibile e il resto che si dilegua nell’incertezza del contorno. Come gli “ingranaggi” di Rodcenko, la “pompa a viti” di Peter Keetman o le “machines” di Thomas Ruff, i tubi divelti, l’altoforno, i gasometri, i camini fotografati da Lorenzo Giordano acquistano una piena autonomia estetica e si fanno protagonisti di un luogo e di un tempo che mai la memoria dovrà cancellare.
Emilia Valenza